CITTA’ REALI, CITTA’ IMMAGINARIE

CITTA’ REALI, CITTA’ IMMAGINARIE

 

 

 

Il libro della giornalista Carla Guidi (con una nota introduttiva del sociologo Franco Ferrarotti e del giornalista e sociologo Pietro Zocconali, Presidente A.N.S) registra i significativi valori di alcuni fenomeni sociali ed artistici, scelti in funzione del fatto di possedere alcune caratteristiche in comune, ma soprattutto in quanto capaci di esprimere collettivamente un disagio, un problema e contemporaneamente rappresentare la ricerca attiva di una risposta, di una risoluzione creativa, permettendo infine un movimento economico ed occupazionale non indifferente.

Con la collaborazione del fotografo Valter Sambucini, si vuole mettere in evidenza la ricerca sociale – espressa attraverso prassi e manifestazioni – di un’identità attraverso la storia, la memoria personale-antropologica e dei territori ma, al contempo, l’esercizio della creatività attraverso gli scambi culturali tra le etnie e le metamorfosi evolutive in rapporto all’immaginario delle mitologie, ad opera dei linguaggi dell’arte. Infatti, nel suo contributo al presente testo, lo storico dell’arte Giorgio Di Genova ha comparato i racconti fotografici di Valter Sambucini a Lo cunto de li cunti: Il fil rouge, che percorre questi soggettivi reportages di Sambucini, è fortemente impregnato di interesse per la spettacolarità sia degli effetti visivi che dei comportamenti umani e delle produzioni creative, nonché dei loro sottintesi rapporti

I RACCONTI VISIVI DI VALTER SAMBUCINI di Giorgio Di Genova (2019)

La macchina fotografica coglie le immagini della realtà attraverso un obiettivo. E per questo in genere si pensa, erroneamente, che ciò che coglie corrisponda alla realtà così com’è. In altre parole che le fotografie ci restituiscano con oggettività aspetti della realtà. Dopo l’avvento del dagherrotipo lo sguardo sulla realtà, certo, è stato in vari casi condizionato. Così è avvenuto talora anche nell’ambito della pittura, che fino ad allora si basava sul disegno. Lo rimarcavo anche in un testo del 1980, in cui ricordavo diversi condizionamenti dovuti all’ottica fotografica, “ormai divenuta, da Degas agli iperrealisti, passando per Knopff, Kubin, Man Ray, Duchamp, il fotomontaggio dei dadaisti tedeschi, Bacon giù giù fino alla mec-art, Gerhard Richter e gli artisti concettuali, non solo mezzo di conoscenza del reale, ma anche espressione, tanto che potremmo dire che dalla nascita del dagherrotipo la pittura è stata sempre costretta a fare i conti con la fotografia, o per correggere gli errori dell’occhio, come appunto è stato per Degas sulla scorta delle esperienze di Muybridge, o per appropriarsene direttamente, come è avvenuto in tanta arte dadaista e concettuale, o per delegare l’obiettivo fotografico, come gli iperrealisti statunitensi, che hanno sostituito alla realtà visiva la realtà fotografica, o per negarla, come hanno fatto e fanno i pittori cosiddetti astratti”.

Anche i fotografi ovviamente hanno subìto i condizionamenti della pittura, soprattutto nelle foto a colori, pertanto è del tutto improprio asserire che le fotografie ci restituiscano obiettivamente tout court la realtà. Così non è, sia nelle foto in bianco e nero sia nei casi in cui chi fotografa si pone alquanto “passivamente” dietro la macchina fotografica. Dietro all’obiettivo della macchina fotografica c’è sempre uno sguardo personale e quindi una “interferenza”, per così dire, soggettiva. Più o meno soggettiva. Per fortuna, direi. Infatti è proprio ciò che permette ai fotografi attraverso gli scatti, di raccontare situazioni o storie cariche di soggettività, non solo per la scelta di quello e della scena che decidono di fotografare, ma anche per l’inquadratura, soprattutto quando, al di là della mera registrazione, si vuole fare racconto attraverso sequenze di scatti a tema.

In questa direzione esemplare è Valter Sambucini, il quale crea racconti visivi ora incentrati sul rapporto tra animali e persone, su corpi tatuati, su murali urbani, su mascheramenti, su cortei in costumi storici, su spettacoli di strada, su produzione statuaria e su effetti visivo-percettivi particolari, che solo un occhio addestrato riesce a cogliere. Tutti temi proposti in questa raccolta di foto, divisa in capitoli da Carla Guidi, che li introduce con scritti molto utili alla migliore comprensione di ognuno. A ben guardare i vari temi, ci si avvede che, in realtà, procedono sul fil rouge di una coerenza interpretativa che coniuga l’osservazione delle situazioni reali e la creatività personale di un artista della fotografia, qual è Valter Sambucini.

Da incallito scrittore di arte e sull’arte io considero questi gruppi di foto alla stregua di una raccolta di novelle o racconti, ovviamente visivi, ma non affidati alla scrittura, cioè non restituiti con essa, ma tramite la fotografia. Confesso che guardando queste foto così raggruppate mi son tornati alla mente racconti di Cechov, novelle di Pirandello, per tralasciare Boccaccio ed il Novellino. Proprio per tali ragioni non ritengo azzardato affermare che Sambucini con questi scatti ha realizzato un suo Lo cunto de li cunti.

Il fil rouge, che percorre questi soggettivi reportages di Sambucini, è fortemente impregnato di interesse per la spettacolarità sia degli effetti visivi che dei comportamenti umani e delle produzioni creative, nonché dei loro sottintesi rapporti. Infatti non può sfuggire che i murali sono il contraltare dei tatuaggi corporali, solo che essi vengono realizzati sull’epidermide delle edificazioni urbane. Altrettanto non può sfuggire quante sotterranee corrispondenze ci sono tra i “tatuaggi” attuati dagli artisti su palazzi e muri e certi imbrattamenti dei personaggi che popolano Ombre e fumetti, per non trascurare inoltre gli animali che si incontrano in Anima/l & Core e in Pelle di città. Volendo potremmo anche individuare un’eco dei grovigli lineari dei tatuaggi che decorano le schiene di Melinda e di Sara nel groviglio di corde in Percorso terrore. L’unica eccezione riguardo a tali corrispondenze potrebbe apparire il gruppo di foto di Orizzonti speculari. Tuttavia in queste scomposizioni visivo-percettive, che potremmo definire una personale declinazione del Cubismo, al mio occhio critico non sfuggono, nonostante le differenze, certe sotterranee consonanze con le modulari iterazioni dei motivi dei tatuaggi fatti sulle schiene di Melinda e Sara, due tra le diverse modelle “decorate” da Marco Manzo, il quale è uno dei maggiormente riconosciuti protagonisti del tatuaggio artistico, che egli, unico al mondo, ha esteso anche alle sue sculture.

Marco Manzo nel 2015 ha partecipato con sei modelle da lui tatuate alla performance di Alta Moda Roma, svoltasi al MAXXI, nel maggio-giugno del 2016 ha curato la mostra internazionale Tatoo forever alla Pelanda del Macro Testaccio, in cui era presente con Arte per fare arte e nel 2017, sempre con alcune modelle, è stato presente a giugno alla manifestazione Estate Romana Lungo il Tevere con sue sculture, sistemate in una sorta di abside in bronzo Back Music opera di Manzo-Di Cola-Gazzè che comprendeva una macchina magnetica sonoro-visiva, opera che a settembre venne riproposta nelle sale del Casino Doria di Villa Pamphili, arricchita da varianti e da una performance tenuta all’aperto.

Manzo si avvale dei disegni appositamente studiati da sua moglie Francesca Boni per i corpi delle singole modelle, quindi ogni tatuaggio è un’opera unica suggerita dal corpo su cui viene realizzato. Ed infatti ogni tatuaggio è un unicum che con le sue trame si distingue da tutti gli altri. Per comprendere appieno la specificità dei tatuaggi di Manzo basta fare un confronto con quelli realizzati da altri tatuatori, ad esempio quello della foto Nudo con fiore, che si articola verticalmente sulla parte laterale destra del corpo con una leggera serpentina e delicati passaggi di disegno, oppure quello della foto Schiena tatuata, che dovrebbe forse essere titolata al plurale, in quanto dietro alla schiena con il Budda si vede un particolare di un’altra con tatuaggi molto elaborati da rasentare l’horror vacui. Ma il confronto andrebbe fatto anche tra le schiene, le cosce e le braccia delle modelle tatuate da Manzo, per constatare che i registri linguistici si differenziano tra decorazioni con motivi circolari sulla schiena e con motivi rettilinei, eseguiti con rigorosa ratio geometrica, sulla gamba, come ben attesta il gioco di sovrapposizione attuato da Manzo nella foto Sara. Il rigore nei tatuaggi altrui spesso è carente. Così è, forse per troppo coinvolgimento emotivo del tatuatore, nel tatuaggio di Opportunità, in cui l’arrapato giovanotto della coppia abbracciata dichiara “Non voglio per sempre. Voglio ora”, emotività a cui probabilmente non è estraneo il fatto che ad essere tatuata sulla schiena è un’avvenente giovane donna.

L’interesse di Valter Sambucini per i corpi tatuati è molto vario, come testimoniano numerose altre fotografie che qui non sono pubblicate, in quanto si è deciso di offrire della vasta ed articolata produzione del fotografo, paradigmatiche selezioni di ciascun tema.

Così è anche per i “tatuaggi” dei corpi urbani del capitolo Pelle di città, collegato per vari aspetti agli altri, ma soprattutto a Epidemia Epidermia. Non a caso nel murale Gomez Istituto Einaudi a decorare un lato dell’edificio sono quattro nudi, cioè altri corpi qui privi di tatuaggi in quanto sono essi stessi tattoo. La loro collocazione tra le due serie formate dalle 8 finestre fanno una sorta di danza con diverse positure, una di schiena appunto, e dislivelli evidenti, accentuati dall’ultimo a destra. Per il loro bianco e nero, evidenziato dalle zone d’intonaco rosso lasciate a vista, sono una sorta di succedanei dell’ottica fotografica, a differenza dei vignettistici due murali di Tordinona (Asino che vola, Prendiamoci la città), anch’essi in bianco e nero, senza dubbio della stessa mano, che non è sempre ben controllata nel disegno (l’immagine di Garibaldi nel primo e talune figure che popolano la barca nel secondo). Più vicini al linguaggio fumettistico sono invece i due murali di Primavalle. Così è per l’arco dipinto dal muralista Solo, il quale nella sua Wonder Woman incinta, che si guarda il ventre avvolto nella bandiera statunitense, riesce a restituire lontananze visive con la veduta all’interno del fornice dell’arco, nonché effetti icastici in virtù dell’ombra riportata della figura inginocchiata, sottintesa allusione al tema di madre-figlio, affrontato da Rossellini nel suo film Europa 51. Altrettanto è per la testa collocata da Omino sopra la collinetta formata da tratteggi di cromatismo differente su cui è la scritta in negativo/positivo EUROPA 15, a sottolineare i riferimenti geografici che avvolgono la parte superiore della testa femminile come una maschera, che, tra l’altro, è un topos ricorrente di questo muralista.

Se in stile fortemente grafico è la lunga sequenza del murale Vespe, realizzato da Lucamaleonte a Roma, sempre a Roma, nella fattispecie al Quadraro, Maupal ha attirato l’attenzione di Sambucini con gli effetti bronzei della sua Lupa, che si morde la coda, guardata a distanza da due bimbetti con trolley che s’incamminano verso l’Europa, come dichiarano le scritte Paris, Berlin, London sulle frecce segnaletiche. Altra Lupa è quella ingobbita e digrignante con le zampe protese verso l’alto, dipinta a Testaccio da Rao in verticale su un lato di un edificio di sette piani, dotando il rione romano di una pregevole opera espressionista. Questa foto documenta un aspetto antitetico a quelli da Sambucini fissati nel gruppo Anima/l & Core, in cui, accanto al gattino tenuto in braccio dalla signora scesa tra i ruderi davanti al teatro Argentina, alla colomba che col suo candore si staglia sulla rossa pettorina del volontario del LIPU, protagonisti sono i cani, da quello che lecca affettuosamente la fronte della proprietaria al cane lupo pacificamente accovacciato a terra accanto al suo padrone, vero e proprio rovescio della medaglia della Lupa testaccina, come, per altri versi lo è il mansueto cagnolino tenuto in braccio dall’uomo con la maschera verde e con un coltellaccio infilato nell’apertura del giacchetto, scatto che trasferisce la ferocia dall’animale di Rao alla maschera, ed in sottinteso all’uomo, perché la maschera, al contrario di quanto si crede comunemente, non sempre nasconde la natura di chi la indossa, ma spesso inconsciamente fa aggallare le sue aspirazioni represse.

Del resto il mascheramento è uno degli aspetti che interessa non poco al nostro fotografo. Di esso nel suo repertorio, anzi, offre vari aspetti e momenti, soprattutto in Ombre e fumetti, in cui sono protagonisti donne mascherate da maga, personificazioni di personaggi inventati da Lewis Carroll, mescolati a maschere tipiche di Halloween, passando dal grottesco di Maga Magò, foto di palesi compiacimenti pittorici, al citazionismo letterario del gruppo con il Cappellaio matto, la Regina di Cuori, il Coniglio Bianco, il Ghiro di Alice nel Paese delle meraviglie fino alle macabre presenze vampiresche della coppia di Vampiri e di Grande Fame, in cui lo zombi addenta una fetta di pizza bianca anziché il collo di qualche umano. Non saprei dire se è un’immagine carpita da Sambucini, oppure è proprio quello che voleva mostrare l’uomo mascherato, per fare una caricatura del personaggio che rappresentava. In quest’ultimo caso, l’immagine va ricondotta ad una personale caricatura della morte, la cui valenza esorcistica impregna sia i Dias de los Muertos in Messico, di cui ci ha lasciato una ricca documentazione filmica Eisenstein nell’incompiuto Que viva Mexico! Del resto i calaveres (teschi), protagonisti della tradizione carnascialesca messicana, in arte hanno conquistato un posto privilegiato per merito di José Guadalupe Posada. E’ chiaro il sostrato esorcistico nei confronti della morte di questa tradizione messicana, unica al mondo, sostrato che è individuabile anche nell’usanza tipica di Catania e del Messinese di preparare e consumare i biscotti di ossa (morticini) per il 2 novembre, giorno di commemorazione dei defunti, con una sorta di trasferimento dell’esorcismo nei confronti della morte dalla esuberante gaiezza messicana ai dolci.

Anche Grande fame e Vampiri del capitolo Ombre e fumetti a loro modo esorcizzano la morte, ma nel contempo sono scene che appartengono a collateralità del teatro che, al di là della foto Percorso del terrore, il cui attore è il protagonista di una delle molte scene del percorso obbligato, costituito da corridoi e stanze, animate da musica, luci ed effetti speciali del percorso ideato sull’esempio dei similari tunnel dei Luna Park, offre a Valter Sambucini altri più specifici riferimenti alla teatralità nelle foto di Memoria identità. Oltre alla maschera gesticolante di Circomare Teatro, vi troviamo la scena Teatro di Strada, colta nel momento in cui tre donne appositamente truccate, mimano gesti, mentre la tamburina ha incrociato le bacchette e un’altra canta a voce piena. Se la suggestiva foto con il giocoliere che a Narni nella notte agita le fiamme poste agli angoli dei triangoli incrociati a mo’ di Stella di David (Narni giocoliere) è uno spettacolo di strada, volendo, lo sono pure le sfilate in costumi cinquecenteschi del Corteo storico di Paliano, cittadina della Ciociaria dove a Ferragosto si svolge anche la Giostra del Turco, nel corso della quale cavalieri con un punteruolo devono infilare successivamente più anelli tenuti dal fantoccio (Palio dell’Assunta), mentre il gruppo di attori in divise statunitensi (Rievocazione storica Anzio) appartengono a una collateralità teatrale: due aspetti della storia, antica, come le manifestazioni di Paliano, che hanno le loro radici nel XVI secolo, e recente, quale quello riferito allo sbarco ad Anzio del VI Corpo di Armata statunitense nel gennaio 1944.

Tuttavia le maggiori suggestioni visive sono senza dubbio offerte dalla serie delle Architetture vibranti, che, come accennato in precedenza, sfruttano la lezione della scomposizione cubista, ma rimescolandola con tagli fotografici, scansionati di volta in volta da varie quadrettature, talora dimezzate. Ovviamente l’insieme non è impostato sulla piramidale aggregazione dei tagli della pittura cubista, bensì è orchestrata in iterazioni di dettagli che creano giochi visivi ritmati, per lo più orizzontalmente, com’è in Architettura vibrante 1, dove gli elementi bianchi si contrappongono impositivamente sulle scie orizzontali retrostanti, rubando otticamente la scena all’albero in primo piano. Altrove, e mi riferisco a Architettura vibrante 2, la scomposizione del palazzo si fa pressoché ordinata, soprattutto in virtù dei tre pilastrini che scandiscono i riflessi sul vetro e dell’azzurro del cielo che li circondano. Il cielo si fa dominante in Azzurro riflesso, in cui la triplice scansione è fatta orizzontalmente con alla base un’aggiunta cittadina, che con le sue tonalità più basse fa risaltare l’azzurro dello striato azzurro del cielo su cui si esaltano i bianchi delle nuvole.

Altri riflessi, più vibratili e con effetti spiccatamente pittorici, sono quelli degli edifici, specchiati in Nell’acqua. Ma l’acuto di questa serie fotografica è, senza alcun dubbio, Metallico. Qui le deformate ondulazioni dei riflessi luminosi sulle superfici creano centralmente fluide morfologie aniconiche di grande suggestione visiva. E’ senza dubbio l’architettura più disarticolata, per le deformazioni di colonne, capitelli e balaustri sistemati tra le due orizzontali parentesi ondeggianti, soprattutto da quella alla base pressoché in “tempesta”. Suo esatto rovescio della medaglia è la serena calma di Sera a Copenhagen, in cui i minimi scarti visivi insiti nella quadrettatura non inficiano la struttura degli edifici, anzi ne esaltano il continuum, come se fossero un tutt’uno. Ed è, senza dubbio, un risultato della ricerca di inquadrature differenti, come farebbe pensare quella dall’alto di Non luoghi, in cui sono le ondulazioni pavimentali a far da contraltare alla pregnanza visiva della scena tripartita che contribuisce agli equilibri delle tre sezioni, in cui spicca la coppia di scorcio con ai lati gli elementi oggettuali iterati in verticale.

Lo sguardo di Sambucini è attratto dalle simmetrie create da immagini iterate. Ecco, allora che a Bagni di Lucca, dove c’è lo storico laboratorio Barsanti (l’antica e premiata fabbrica, fondata nel 1900 da Carmelo Barsanti che per primo avviò in Bagni di Lucca la produzione di statue in gesso alabastrino), non poteva lasciarlo indifferente la disposizione allineata e schierata delle copie di note opere, nella fattispecie dei re Magi, come testimonia un altro scatto attuato dall’alto (Arte Barsanti). Di tale produzione egli ha voluto anche documentare l’artigiano, il quale, circondato da statuine disposte con ordine, dà gli ultimi ritocchi ad una di esse (Arte Barsanti 2). Infine, a completamento di questa incursione nel laboratorio di copie di capolavori di scultura, ecco la veduta di Arte Barsanti 3, che fissa una motocicletta parcheggiata in un angolo del laboratorio, creando una sorta di cortocircuito visivo tra la plasticità della nera moto con i piani su cui sono sistemate le bianche sculturine e numerosi particolari in attesa di essere utilizzati.

Sempre in Provincia di Lucca sorge Coreglia Antelminelli, borgo noto, oltre che per l’agostana Festa Medievale, per il Museo della Figurina di Gesso e dell’Emigrazione, istituito nel 1975 per ricordare i figurinai del luogo, che, emigrando, hanno diffuso per il mondo la loro produzione. In questo Comune è stata eretto il marmoreo Monumento al figurinaio a Coreglia, che raffigura un soddisfatto uomo in panciotto, alquanto impalato, con sulle braccia un gatto da un lato e dall’altro un Gesù ed una dama. Tuttavia Sambucini non poteva non visitare il museo suddetto. Ed infatti ha scattato foto anche all’interno, come attesta Museo Coreglia.

L’interesse del nostro versatile fotografo per la staticità delle sculture e degli effetti che esse possono creare sono documentati dalle due foto relative alla Royal Cast Collection Copenhagen 1 e 2: la prima scattata all’interno di una sala, in cui Valter fa dialogare due copie di capolavori godibili a Firenze, cioè il Perseo di Benvenuto Cellini e il David di Michelangelo, colti l’uno all’interno e l’altro all’esterno, ossia al di qua ed al di là della griglia in ferro della finestra, da cui si vede uno scorcio della capitale della Danimarca. A conclusione di questo fascinoso viaggio fotografico Valter Sambucini ha voluto regalarci il caldo cotto di una facciata esterna del succitato museo con questa scena, che sarebbe senza dubbio piaciuta a De Chirico. Infatti essa è estremamente carica di sostrati metafisici, creati dalle bianche figure di statue, che occhieggianti s’innalzano dietro i vetri delle finestre, con la sola eccezione di una in alto a sinistra, dalla quale, passando per la testa bianca della finestra sottostante, si scende all’esplosione visiva dell’alata Nike di Samotracia, vera epifania con riflesso, contenuta nell’arco con le due nerastre ante aperte, quasi a echeggiare le ali della bianca scultura del Louvre, qui “atterrata” a differenza del volo che sembra spiccare sulla scalinata del museo di Parigi. Ed è un ulteriore gioco di contrasti cromatici, in aggiunta a quello dell’acceso arancione della parete di mattoni.

Davvero una straordinaria conclusione di questo variegato racconto, che ha fatto viaggiare il nostro sguardo assieme alla nostra immaginazione, molto arricchita di conoscenze e scoperte. Che poi è (o dovrebbe essere) la vera funzione della fotografia.